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Nell’ambito degli studi dedicati all’interpretazione del Timaeus ciceroniano,L’opera è stata per lo più esaminata a partire dall’interesse per le modalità del vertere. Al riguardo, fondamentali sono gli studi di Giomini (1967) e Lambardi (1982), a cui si aggiungano Poncelet (1957), Franzoi (1973) e Powell (1995); su puntuali questioni cfr. Traglia (1971), Gómez Rabal (1998) e (2013), e Bakhouche (2001). Quanto alla prospettiva storico-filosofica, si vedano i lavori di Moreschini (1979), Lévy (2003), Aronadio (2007) e (2008), Reydams-Schils (2013), Sedley (2013), Renaud (2018) 84–9, Hoenig (2018) 38–101; su puntuali questioni cfr. Auvray-Assayas (2004) e ().l’indagine su elementi riconducibili a una possibile influenza aristotelico-peripatetica è un aspetto finora rimasto ai margini dell’interesse accademico. Di questo piccolo testo, che si presenta come la lacunosa traduzione latina della sezione cosmologica dell’omonimo dialogo platonico (27d–47b), si sono in prevalenza sottolineati i tratti che mostrano il ricorso di Cicerone alla terminologia propria dell’accademia scettica,Dal riferimento in esordio alle conversazioni Carneadeo more et modo intrattenute con Nigidio Figulo all’impiego di probabile e coniectura per rendere εἰκὼς λόγος. Ampia indagine in Hoenig (2018) 55–83; cfr. Aronadio (2008) 118–21. Facendo leva sull’originalità della nozione di probabile, Auvray-Assayas (2006) 37–59 sostiene che “le ‘probabilisme’ de Cicéron n’est donc pas un affaiblissement de la position des maîtres de la nouvelle Académie ni l’héritage de l’enseignement de Philon de Larissa.”così come hanno richiamato attenzione alcune connotazioni ritenute d’impronta stoica.Cfr. Moreschini (1979) 111 e 158 n. 109, e Lévy (2003) 103–5.Eppure, non sfugge la presenza nel prologo del peripatetico Cratippo, indicato con l’appellativo onorifico Peripateticorum omnium princeps,Cfr. Cic. De orat. I 104: Peripateticus Staseas […] in illo suo genere omnium princeps.nella funzione di interlocutore di Cicerone insieme al pitagorico Nigidio Figulo.Quella dei rapporti di Cicerone con l’aristotelismo è una questione complessa, assai discussa e di non univoca soluzione, considerate da un lato le dichiarazioni dello stesso Cicerone in merito a una sua conoscenza di testi aristotelici,Cfr. Cic. Fin. III 10: Commentarios quosdam, inquam, Aristotelios, quos hic sciebam esse, veni ut auferrem, quos legerem, dum essem otiosus; quod quidem nobis non saepe contingit. Si considerino anche i passi in cui l’Arpinate afferma di scrivere Aristotelio more (Fam. I 9.23); cfr. Att. XIII 19.4 e IV 16.2. Per un primo orientamento sulla biblioteca di Cicerone cfr. Pandolfi (2003).e dall’altro la presenza di passi da cui si desume ora una distanza da alcune dottrine aristotelico-peripatetiche,Si pensi alla mancata ricezione della paretimologia aristotelica di αἰθήρ. Aristotele fa derivare il termine ἀπὸ τοῦ θεῖν ἀεί (Cael. I 3.270b20–24) diversamente da Anassagora (Cael. I 3.270b24–25 ἀντὶ πυρός, e Simpl. In Cael. VII 119 ἀπὸ τοῦ αἴθειν = 59A73 DK; cfr. Aristot. Meteor. I 3.339b21–25); sul nesso fra etere e πῦρ si soffermano poi diffusamente gli Stoici (e.g. SVF II 327, 436, 580, 596/2, 1050). Questa seconda linea è quella attestata da Cicerone: su ardor cfr. Nat. deor. I 37 (= SVF I 530 e 534a), II 40 (= SVF I 504); su aetheris flamma cfr. Nat. deor. II 118 (= SVF II 593).ora un atteggiamento polemicoQuale si legge, per esempio, in Acad. I 33–34, con il riferimento ad Aristotele, responsabile di aver per primo minato (labefactavit) la teoria platonica delle idee, e a Teofrasto, colpevole di aver ancor più compromesso (vehementius fregit) l’auctoritas dell’antica dottrina a causa delle posizioni assunte in campo etico. Sul passo cfr. Lévy (2013) 231–4, e Verde (2019) 371–2.ora addirittura una lettura distorta.A un equivoco, “errore di traduzione”, di Cicerone pensa Caldini Montanari (2006), notando in un passo del Somnium Scipionis a suo avviso dipendente dallo ps.-Aristot. Περὶ κόσμου la presenza di maculae quale resa di ὁ σπίλος, in luogo di ἡ σπίλος presente nel greco.La problematicità dell’argomento si pone almeno a un duplice livello. Anzitutto essa riguarda la conoscenza ciceroniana di (e di quale) Aristotele, nonché più in generale del Peripato, tema su cui gli studiosi da tempo si esprimono e continuano con profitto a indagare,Per un’esplorazione della tematica si vedano anzitutto Barnes (1997), gli studi raccolti in Fortenbaugh and Steinmetz (1989) e il dettagliato panorama tracciato da André (2013). Su vari aspetti cfr. Dillon (2016) e Auvray-Assayas (2017).pur senza pervenire a un consenso dinanzi a uno spettro di testimonianze così variegato da indurre piuttosto a riconoscere che “l’aristotélisme que Cicéron a connu présentait […] des traits contradictoires.”Lévy (2013) 230.Tra forme di dichiarato scetticismo e opportuni inviti alla cautela a vario titolo espressi, un effetto disorientante si giustifica in ragione delle numerose incertezze, complici non da ultimo le controverse notizie relative alle condizioni di circolazione dei testi aristotelici in età ellenistica.Secondo Auvray-Assayas (2006) 23–4, “l’Aristote de Cicéron, qui a pour nous disparu, présente très peu de traits communs à celui que nous lisons aujourd’hui et qui fut exhumé après la mort de Cicéron”; cfr. Sharples (2010) 2, e Hatzimichali (2013) 23–5. Pur condividendo lo scetticismo generale, Dillon (2016) 186–7 e 188–90 afferma che “it seems hard to deny that some discovery of books was made by Apellicon”, e sulla base del discorso di Pisone in Fin. V 9–11 non esita a riconoscere a Cicerone “at least generic knowledge […] of Aristotle’s ‘esoteric’ commentaria as well as of his more polished, exoteric works, and of the distinction between them”; su Fin. V 12 cfr. Rashed (2021) ccxlix-liii. Sull’argomento cfr. infra, n. 86.Altrettanto problematica è poi la questione della natura e del grado di adesione di Cicerone alla dottrina del Liceo, dato che, a fronte di alcune manifeste espressioni d’ammirazione per lo Stagirita, ritenuto excepto Platone il migliore dei filosofi (Fin. V 7; cfr. Tusc. I 22), su aspetti particolari si registra un dissenso più o meno esplicito,Cfr. Sciuto (1999).che evidentemente si fonda sul riconoscimento di presunte incongruenze ravvisabili nella dottrina di Aristotele, le cui opere, a suo avviso, non semper idem dicere videntur (Fin. V 12).In questa sede il problema sarà affrontato da una diversa prospettiva. Si è sostenuto, con un’intuizione felice ma non adeguatamente approfondita, che “le Timée, dans la traduction cicéronienne, pouvait accréditer l’idée d’une cosmologie, d’une physique céleste, communes, les Romains minimisant les antinomies fondamentales, essentielles pour un Grec, entre le theos oratos, cher au ‘premier Aristote’, dieu incréé, qu’on retrouve dans le De caelo, et une cosmologie platonicienne impliquant la genèse du monde.”André (2013) 18.L’attenzione sarà qui volta a riflettere se, in che termini e fino a che punto questo testo riconducibile alla ‘produzione platonica’ di Cicerone possa registrare i segni di un qualche influsso aristotelizzante, ed eventualmente quali conseguenze se ne traggano, in termini di ricezione delle dottrine, per la tradizione peripatetica ellenistica.Il tema investe la questione dei rapporti fra platonismo e aristotelismo, su cui si vedano almeno Karamanolis (2006), e i contributi in Bénatouïl et al. (2011). Su vari aspetti della ricezione di Aristotele nel medioplatonismo cfr. e.g. Gottschalk (1987) 1143–51, Moraux (2000) vol. II/2, 13–150, Roskam (2011), Ferrari (2015), Chiaradonna (2015) e (2017), e Michalewski (2016).Ciò è ben lungi dal pretendere di riscontrare nel Timaeus ciceroniano un’adesione estesa per l’aristotelismo, non foss’altro per l’assunto di fondo ben esplicitato in esordio (Tim. 3) – la generazione del cosmo –, valido di per sé a definire l’orizzonte culturale di riferimento e a respingere il sospetto di un totale cedimento verso tale impostazione.Trovando giustificazione nelle molteplici aperture del platonismo,Concezione ora generalmente condivisa. Contra “a unitarian, monolithic Middle Platonism” Opsomer (1998) 265 ricorda che “attempts to free Platonism from extraneous influences […] coexisted and interfered with the practice to discuss Platonic philosophy in terms of the then existent philosophical koinè or to explain it in a Stoic or Peripatetic theoretical framework.”l’eventualità di un simile scenario non è di poco conto sul piano storico-filosofico, considerato il tentativo di Antioco di Ascalona di operare una conciliazione fra platonismo e aristotelismo. Peraltro, gioverà ricordare che di Antioco fu allievo non solo Cicerone (e.g. Brutus 315 = F4 Sedley; Fin. V 1 = F9 Sedley; cfr. Plut. Cic. 4.1–4 = T5a Sedley), ma lo stesso Cratippo, a cui la tradizione attribuisce la frequentazione dell’Accademia prima dell’abbandono che fece di lui un autentico Περιπατητικός (Philod. Acad. col. XXXV 2–16 = 1 Dorandi-Verde).L’edizione delle Cratippi Peripatetici Reliquiae è in Dorandi and Verde (2019). Sull’affiliazione peripatetica di Cratippo si vedano le posizioni riferite in Dorandi (1994); cfr. Lévy (2012) 294–6, Sharples (2010) 20, e Verde (2018). Per Antioco si veda Sedley (2012).Il valore da attribuire a questa ‘triangolazione’ sarà da soppesare con attenzione, poiché apre alla questione di possibili forme di mediazione, ovvero di quale possa essere nel Timaeus la fonte di alcune propensioni aristotelizzanti, se Cratippo o se Antioco, oppure se l’uno e l’altro.Secondo André (2013) 16–7, “ce n’est pas dans la consultation directe d’un ‘corpus’ précis qu’il faut chercher la source de la culture péripatéticienne de Cicéron”, ma è stata decisiva “la diffusion scolaire de l’aristotélisme.” Su Antioco quale fonte privilegiata per la conoscenza ciceroniana del pensiero aristotelico pro Auvray-Assayas (2006) 33–4, e Lévy (2013) 228.L’argomentazione verterà sull’analisi di Timaeus 19–21, dove alcuni tratti lasciano intravedere una possibile sinergia di platonismo e aristotelismo. È indubbio che “vincolare Cicerone al modello greco e imporgli una fredda traduzione senza nulla concedere alla rielaborazione stilistica e tecnica, equivarrebbe a cancellare d’un tratto quella formazione letteraria e oratoria che è peculiare nella lingua e nella personalità stessa dell’Arpinate.”Giomini (1967) 33 n. 7.Tuttavia, la rielaborazione agisce anche, e soprattutto, a livello di contenuti. Gli elementi che si presentano consentono di evidenziare l’esprit filosofico di Cicerone, e in tale senso sono utili a precisare la sua personale posizione di Platonis aemulus (Quint. Inst. X 1.123), portavoce di un’esegesi per molti versi distante dal modello originario, ma tale da inserirsi a pieno titolo nell’articolato milieu culturale e filosofico medioplatonico.Cfr. Auvray-Assayas (2006) 42: “Cicéron enracine explicitement ses propres dialogues dans une tradition platonicienne aux multiples formes”; Lévy (2008) 11: “la position personnelle de Cicéron comporte des éléments qui le rapprochent du moyen platonisme, et d’autres qui l’en différencient”; Renaud (2018) 75: “his appropriation of Platonic thinking implies its transformation through Hellenistic and Roman categories, but this transformation is also a matter of Cicero’s personal, engaged relation to the Greek author.” Sul tema di ‘Cicerone medioplatonico’ cfr. anche Lévy (1990) e Altman (2016).Il Timaeus ciceroniano, infatti, costituisce una fonte preziosa per il fatto di essere la prima rivisitazione filosofica in lingua latina del dialogo platonico,Lévy (2003) 107 conclude che “we could think of this lost or never written Ciceronian dialogue as if it would have been the first Latin Middle-Platonist text.” Della tradizione esegetica proseguita in Apuleio, Calcidio e Agostino si è occupata Hoenig (2018).recettiva delle problematiche sollevate dal dibattito ellenistico. Del resto, lungi dall’essere un interpres indisertus (Fin. III 15), da intellettuale di vasta cultura e bilingue qual era,Stando a Plutarco (Cic. 4.6–7), il retore Apollonio, figlio di Molone, pregò Cicerone, al tempo in cui era suo allievo a Rodi, di declamare in greco (Ἑλληνιστὶ μελετῆσαι); una volta concluso l’esercizio, i presenti fecero a gara per complimentarsi con Cicerone.Cicerone intese il tradurre come operazione condotta non solo “con intendimenti d’arte”, ma al modo consueto dell’antichità, vale a dire come aemulatio,Traina (1970) 64–5. Cfr. Traglia (1971) 307–12, e Franzoi (1973).la quale evidentemente non può che essere modulata in una duplice prospettiva, letteraria e filosofica. La ricerca intende dunque soppesare il livello di equilibrio raggiunto nel Timaeus fra sguardo all’auctoritas e personale rimodulazione concettuale, evidenziando quello che è stato definito “un mobile equilibrio fra intelligenza della fonte e libertà del rendere”:Aronadio (2008) 113.insieme al rifiuto di applicare a Cicerone un’accezione deteriore di eclettismo,Come ricordato da Malaspina (2012) 15, a lungo inteso come “acritico assemblaggio di elementi eterogenei desunti da scuole di pensiero diverse.” Sono noti i pregiudizi, mai del tutto sconfessati, verso la produzione filosofica di Cicerone; tuttavia, già Alfonsi (1961) 128 sottolineava come quella di Cicerone non fosse una “adesione a qualsiasi sistema”, ma “entusiasmo per la filosofia in sé, il philosophiae studium.” Per una positiva valutazione della categoria filosofica di ‘eclettismo’ cfr. Dillon and Long (1988).si renderà possibile precisare alcuni tratti della sua autonomia filosofica, a conferma dell’impossibilità di considerare il Timaeus come un mero esercizio letterario.Cfr. Aronadio (2008) 112: “è […] indubbio che il Timaeus ciceroniano è traduzione tutt’altro che meccanica e neutra” (anche Aronadio 2007, 88); Renaud (2018) 84: “contrary to that of the Protagoras, the translation of the Timaeus is unlikely to be a mere exercise in style.”Evidenziando la porosità di alcune frontiere filosofiche e le modalità di circolazione dei saperi, sarà favorita la comprensione dell’atteggiamento ciceroniano nei confronti dell’equiparazione allora in voga fra Accademia e Liceo (cfr. Acad. Ι 17), entrambe ricordate come base imprescindibile della propria formazione. Se ne ha un ritratto nell’esametro inque Academia umbrifera nitidoque Lyceo, composto per l’opera De consulatu suo e conservato al verso 73 del grande estratto presente in Div. I 17–22 (= fr. 11 Traglia). Data la difficoltà di riconoscere a Cicerone l’aver studiato all’ombrosa Accademia (cfr. Hor. Ep. II 2.45), che egli afferma essere stata deserta all’epoca del suo soggiorno in Atene (Fin. V 1–2), o in un Liceo in pieno splendore istituzionale, si è sostenuto che l’immagine risente di una venatura metaforica e poetica volta a sottolineare l’ascendenza filosofica di Cicerone mediante l’allusione alla linea dottrinale di Antioco, che proprio nella combinazione delle due scuole ebbe il suo tratto distintivo.Glucker (1988) 47–8. Fra l’altro, la villa di Tuscolo presenta un gymnasium, la cui parte superiore è denominata da Cicerone ‘Liceo’ (Div. I 8), mentre quella inferiore ‘Accademia’ (Tusc. II 9 e III 7).Si può supporre un ulteriore livello di interpretazione, che senza contraddire il precedente lo invera in un’altra prospettiva: se la compresenza di Academia umbrifera e nitidum Lyceum conferma i luoghi in cui Cicerone si dice (o ambisce a mostrarsi) allievo di Platone e di Aristotele, l’accostamento fra gli aggettivi umbriferus e nitidus lascia intravedere una ‘opposizione chiaroscurale’, che riflessa nelle due dottrine approderebbe alla contrapposizione fra una ombrosità del platonismo e una forma di maggiore chiarezza da parte della scuola peripatetica. Si tratta di una supposizione, non improbabile se si rammenta quanto Cicerone dichiara a proposito dell’oscurità della dottrina del Timeo platonico (Fin. II 15; Lucul. 123),Cfr. Brignoli (1959).affermazione controbilanciata dai ripetuti riferimenti al nitore dell’eloquio ricercato nel Liceo,Il nitore è attestato come elemento sia della limpidezza d’espressione – in Att. XIII 19.5 Cicerone fa riferimento a posizioni espresse negli Academica con l’acumen Antiochi, ma aventi nitorem orationis nostrum – sia della perspicuità (Part. orat. 17). Se ne ha riscontro anche in Seneca: in Nat. quaest. VI 13.1 si legge che l’eloquio di Teofrasto non sarebbe ‘divino’, come vollero i Greci, ma certamente dulce e nitidum sine labore. Si tenga conto pure dei numerosi luoghi in cui Aristotele e i Peripatetici sono indicati quali punto di riferimento per le disquisizioni sul linguaggio (e.g. De orat. I 43, II 152, III 184; Orat. 46; cfr. Orat. 228, e Top. 6), senza per questo togliere alcun primato d’onore a Platone (e.g. Orat. 62: longe omnium quicumque scripserunt aut locuti sunt exstitit et gravitate <et suavitate> princeps Plato).con Aristotele stimato per il suo flumen orationis aureum (Lucul. 119; cfr. Tusc. I 7) e i Peripatetici per l’elegantia dell’esposizione (Orat. 127): il grande merito di Aristotele e Teofrasto, excellentes viri cum subtilitate, tum copia, è l’aver congiunto i dicendi praecepta alla filosofia (Div. II 4).Una tale lettura potrebbe alludere a un qualche ruolo ausiliario della filosofia peripatetica, a generale beneficio del contesto medioplatonico di un’opera come il Timaeus ciceroniano, che, seppur rimasta a livello progettuale,Il problema è stato ampiamente discusso. Utile scorcio critico delle posizioni in Aronadio (2007) 89–94, del quale condivido la tesi secondo cui “la parte del Timeo platonico che troviamo tradotta nel testo pervenutoci sia precisamente l’intera e sola parte che a Cicerone interessava tradurre.”partecipa a pieno titolo di quella stagione che con felice espressione è stata definita “la grande esperienza metafisica del 45.”Alfonsi (1961) 133.1Intelligenza e movimentoAl §19 Cicerone scrive:Itaque ei nec manus adfixit, quoniam nec capiendum quicquam erat nec repellendum, nec pedes aut aliqua membra, quibus ingressum corporis sustineret. Motum enim dedit caelo eum, qui figurae eius esset aptissumus, qui unus ex septem motibus mentem atque intellegentiam cieret maxime; itaque una conversione atque eadem ipse circum se torquetur et vertitur. Sex autem reliquos motus ab eo separavit atque ab omni erratione eum liberavit. Ad hanc igitur conversionem, quae pedibus et gradu non egeret, ingrediendi membra non dedit.Si è qui seguita l’edizione critica a cura di Giomini (1975). Per utili confronti si è tenuto conto delle edizioni critiche curate da Ax (1938) e Pini (1965), così come dello studio di Jonkers (2017).Nel fornire la propria interpretazione del passo platonico, dove è descritto il processo mediante cui il dio artefice forgia il corpo del cosmo come dio visibile, Cicerone precisa, seguendo Platone, che il Demiurgo non lo fornì di membra, ma diede a lui il movimento più confacente al suo sembiante. Considerata la sua natura sferica e tutt’intorno levigata, il tipo di movimento assegnato al cosmo fu quello circolare, uniforme ed eterno, quel motum che l’Arpinate indica come quello, fra i sette tipi di movimento, qui […] mentem atque intellegentiam cieret maxime.Tornare in modo rapido a Tim. 34a κίνησιν γὰρ ἀπένειμεν αὐτῷ τὴν τοῦ σώματος οἰκείαν, τῶν ἑπτὰ τὴν περὶ νοῦν καὶ φρόνησιν μάλιστα οὖσαν consentirà di osservare la diversa prospettiva ciceroniana.La distinzione tende a restare inosservata. Lambardi (1982) 101 n. 101 introduce il confronto fra i passi affermando che “il dio assegna al mondo vivente solo il moto circolare, come quello che più si addice all’intelligenza e al pensiero” (corsivo di chi scrive).In Platone il punto cardine della frase ruota attorno alla nozione di idoneità (οἰκεῖος): nell’indicare la relazione tra forma e funzione (la forma del cosmo e il movimento che meglio gli si addice), essa evoca la dimensione dell’affinità, quella corrispondenza che lega le cose al loro modello ideale e restituisce anche il senso stesso dell’essere della cosa, la quale proprio nel suo essere ‘conforme a’ recupera a un tempo la vera appartenenza e definisce il carattere suo peculiare.Quanto all’attenzione da parte del Demiurgo per l’idoneità e la convenienza cfr. Plat. Tim. 33b: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές.Fra i sette tipi di movimento, al σῶμα del cosmo il Demiurgo assegnò il movimento idoneo alla sua natura, ossia il moto circolare, poiché questo si addice μάλιστα all’intelligenza e al pensiero.Cicerone afferma che il Demiurgo motum enim dedit caelo eum, qui figurae eius esset aptissumus, ma abbandona subito il concetto di idoneità, reso da aptissumus, per propendere verso la nozione di movimento, affermando che si tratta del moto qui […] mentem atque intellegentiam cieret maxime. Nella proposizione l’attenzione risulta spostata sul verbo ciere, sull’aspetto cinetico,Particolari soluzioni stilistiche, con implicazioni filosofiche non secondarie, in riferimento alle nozioni di movimento (κινέω, κίνησις, ἀεικίνητον) si osservano nella traduzione di Phaedr. 245c–246a nel Somnium Scipionis (Rep. VI 27–28); al riguardo si vedano Humbert (1940) e Traglia (1971) 318–24. Cfr. Cic. Nat. deor. I 33 (= Aristot. Περὶ φιλοσοφίας fr. 26 Ross, 39 Untersteiner, 25.1 Gigon), dove la nozione di celeritas nell’interrogativa quo modo autem caeli divinus ille sensus in celeritate tanta conservari potest? è ritenuta un’introduzione di Cicerone; cfr. Berti (1997) 313, e Maso (2008) 177–8 e 189–90.con conseguenze non irrilevanti, dato che il movimento idoneo al cosmo non è più quello che per sua natura connota assiologicamente l’intelligenza,Tale significato, invece, ben traspare in Marsilio Ficino, che nel Compendium in Timaeum così traduce: motum enim illi congruum suo corpori tribuit, qui ex septem motibus unus ad mentem maxime et intelligentiam pertinet; si notino pertinet e la posizione di maxime.ma quello che è detto muovere maximeLa valenza di maxime è discussa, intesa ora nel senso della pertinenza (‘soprattutto’, ‘precisamente’) ora a precisare il verbo ciere in senso quantitativo (‘quanto più possibile’, ‘al massimo grado’): cfr. e.g. “movimento […] che, unico dei sette movimenti, movesse soprattutto la ragione e l’intelligenza” (trad. Pini 1968); “el único entre los siete movimientos que era capaz de poner en máxima agitación a la mente y a la inteligencia” (trad. Escobar 1999). Alcune interpretazioni glissano su tale aspetto: cfr. e.g. “et qui, entre les sept mouvements, est le seul qui convienne à un être doué d’intelligence” (trad. Nisard 1864).la ragione e l’intelligenza. In Platone il Demiurgo-nous assegna al cosmo il movimento più consono all’intelligenza, ossia quello più affine a sé, stabilendo un nesso fra la causa e il causato; in Cicerone, invece, il Demiurgo conferisce al cielo il motum che consente alla mens atque intellegentia celeste di muoversi. La peculiarità di questa descrizione non è il movimento dell’intelligenza, ancorché la precisazione restituita da maxime sia originale, ma sono le relazioni causali, nel senso che nella traduzione ciceroniana sembra trasparire, con una distinzione di livelli, la funzione del Demiurgo-nous come causa del movimento dell’intelligenza celeste.Nella distanza che separa la traduzione ciceroniana dal testo platonico si potrebbe cogliere l’eco di un riferimento all’azione del dio-motore immobile di imprimere l’iniziale impulso di movimento, favorendo l’impressione di una rimodulazione del passo in senso aristotelizzante. Naturalmente, per Aristotele le intelligenze motrici celesti sono eterne e immobili. Tuttavia, come si legge in Metaph. Λ 7.1072b13–14, ἐκ τοιαύτης ἄρα ἀρχῆς ἤρτηται ὁ οὐρανὸς καὶ ἡ φύσις. Dal primo motore immobile dipendono il cielo e la natura, poiché, agendo al modo degli oggetti di desiderio e di intellezione, i quali muovono la volontà e l’intelletto per attrazione, esso muove la prima sfera, la quale indirettamente coinvolge nel proprio movimento le altre. Laddove una tale lettura risulti plausibile, la conseguenza di un tale accostamento di dottrine non potrebbe che riverberarsi sulla stessa concezione demiurgica, dando luogo a una sommatoria di diverse causalità: da artefice dell’ordinata disposizione del cosmo (causa efficiente), il Demiurgo verrebbe ad assumere anche la funzione di conduttore e garante di tale ordinamento (causa motrice).Così descritta in Cic. Tusc. I 70: …vel, si semper fuerunt, ut Aristoteli placet, moderator tanti operis et muneris? Secondo Dillon (2016) 190 “we cannot assume that we have to do with the first unmoved mover of Metaphysics 12 (Lambda)”, ma sarebbe più plausibile che tale concezione derivi a Cicerone dal Περὶ φιλοσοφίας. Sulla consonanza fra le due dottrine cfr. Berti (1997) 18–9 e 257–349, spec. 305–19.In tal caso, ove risultasse in qualche misura responsabile del dinamismo del cosmo, è inevitabile che si complichi la relazione con l’anima del mondo, dato che a questa Platone riserva la funzione cinetica.Cfr. Plut. An. procr. 1015E: ψυχὴ γὰρ αἰτία κινήσεως καὶ ἀρχή, νοῦς δὲ τάξεως καὶ συμφωνίας περὶ κίνησιν.L’interpretazione del passo – alquanto controverso già per gli antichi, viste le lezioni restituite dalla tradizione manoscrittaSi veda Giomini (1975), app. cr. “cieret ex -rat B cogeret (ex coieret V) SV”, nonché Giomini (1967) 29 n. 72; cfr. Pini (1965), app. cr. Discussioni attorno alla problematicità della lezione cieret, in quanto poco platonica, sono già in Orelli (1828) 501, e Hermann (1842) 36–7.– è di rilievo ai fini della contestualizzazione del Timaeus ciceroniano nell’alveo del dibattito medioplatonico. Giustificata dalla stessa presenza di Peripatetici veteres all’Accademia di Antioco (Fin. V 7), l’esegesi del Timeo da parte di Platonici (anche pitagorizzanti) che lessero il dialogo alla luce di alcune dottrine aristoteliche fu una tendenza che ebbe a prendere corso fin dall’età tardo-ellenisticaSi pensi a Eudoro di Alessandria, noto per essersi occupato del Timeo e per essere stato attento lettore della Metafisica e delle Categorie di Aristotele. Sull’esegesi di Eudoro al Timeo si veda Bonazzi (2002) e (2013) spec. 164–71; cfr. Moraux (2000) vol. II/2, 79–96. Quanto ad alcune tendenze aristotelizzanti del suo platonismo, nell’ambito di dottrine di ispirazione pitagorica, “per Eudoro, come per Antioco, il ritorno ad Aristotele era […] parte di un più generale ritorno agli antichi maestri”, ovvero “entrambi cercarono di ricondurre il pensiero di Aristotele entro la più ampia tradizione accademica” (Falcon 2017, 61).per proseguire con noti esiti in età romana.Il che spiega sia l’opera di Tauro di Beirut, dal titolo Περὶ τῆς τῶν δογμάτων διαφορᾶς Πλάτωνος καὶ Ἀριστοτέλους (Suid. τ 166 = T3 Petrucci), sia l’atteggiamento critico di Attico, autore di un’opera intitolata Πρὸς τοὺς διὰ τῶν Ἀριστοτέλους τὰ Πλάτωνος ὑπισχνουμένους (Eus. PE XI 1.2 = fr. 1 des Places). Secondo Moraux (2000) vol. II/2, 148–9, si trattò di una polemica condotta quasi per partito preso, stante il fatto che Attico non solo “non entra mai nel merito della discussione”, ma sembrerebbe persino aver avuto poca familiarità diretta con i testi di Aristotele; pro Michalewski (2016) 228–9.Nel passo in analisi, l’azione della divinità che mentem atque intellegentiam cieret maxime può plausibilmente essere letta come appartenente a quella stessa tradizione che si troverà poi esplicitata nel Didaskalikos, opera nella quale è riconosciuta all’autore la capacità di fondere la dottrina platonica con quella aristotelica. In particolare, per quanto concerne il movimento, è interessante la chiusa del cap. 10.2, ove Alcinoo, sulla scia di Metafisica Λ 7, afferma οὕτω γε δὴ καὶ οὗτος ὁ νοῦς κινήσει τὸν νοῦν τοῦ σύμπαντος οὐρανοῦ, ossia che “questo intelletto muoverà l’intelletto di tutto il cielo.”Sulla tendenza aristotelizzante del platonismo di Alcinoo gli studi abbondano: cfr. e.g. Whittaker in Whittaker and Louis (1990) xiii–xxxi e Notes complémentaires, Donini (1994) 5057–63, Dillon (1996) 272–304, e Ferrari (2013) 301–5. Riserve sono espresse da Chiaradonna (2017) 157: “il est plus probable que l’assimilation de Métaphysique Λ ait eu lieu assez tard”, e dunque “il n’est pas tout à fait plausible de voir dans le Didaskalikos un témoin de l’enseignement platonicien typique dans les écoles du IIème siècle.”2Attività di pensieroAi §§20–21 si legge:Haec deus is, qui erat, de aliquando futuro deo cogitans, levem illum effecit et undique aequabilem et a medio ad summum parem et perfectum atque absolutum ex absolutis atque perfectis. Animum autem ut in eo medio conlocavit, ita per totum tetendit; deinde eum circumdedit corpore et vestivit extrinsecus caeloque solivago et volubili et in orbem incitato complexus est, quod secum ipsum propter virtutem facile esse posset nec desideraret alterum, satis sibi ipsum notum et familiare. Sic deus ille aeternus hunc perfecte beatum deum procreavit.Il dio che doveva nascere è presente all’attenzione del dio-Demiurgo, che pensò di farlo liscio, in ogni parte uguale, composto di parti compiute e perfette. Rispetto alla figura etimologica λογισμὸς θεοῦ λογισθείς di Tim. 34a–b, la formula deus cogitans appare compendiata, ma non inaridita. Per quanto dalla prospettiva dell’efficacia letteraria la resa latina implichi una perdita di icasticità dell’immagine,Così Lambardi (1982) 99: “Quanto alla resa di 34a-b, l’espressione icastica: λογισμὸς θεοῦ… λογισθεὶς… ἐποίησεν, per cui è il ‘ragionamento’ divino personificato a ‘fare’ il corpo dell’universo, si dissolve nel più anodino haec deus […] cogitans effecit, ‘in questo modo ragionando […] il dio costruì (6, 20).”sotto il profilo del senso il guadagno non sembra insipido: ciò che risalta, in conseguenza del cambio di soggetto, è l’esplicitazione del dio come soggetto pensante (deus cogitans), che non è lo stesso che conferire l’azione al ragionamento divino personificato (λογισμὸς θεοῦ; cfr. Phaedr. 247d: θεοῦ διάνοια). A meno di considerare tale differenza una scelta stilistica priva di rispondenza filosofica, il passaggio da λογισμὸς θεοῦ λογισθείς a deus cogitans dice della centralità del soggetto divino, ritratto nell’attività di pensare. Questa sottolineatura potrebbe risultare tanto più interessante tenendo conto della fortuna nella tradizione ellenistica della iunctura λογισμὸς θεοῦ, attorno alla quale sorsero ampie disquisizioni.Si pensi al caso di Filone di Alessandria: su Opif. 24 ὁ τοῦ ἀρχιτέκτονος λογισμὸς cfr. De Luca (2020) 98; vedi anche infra, n. 52.Nell’interpretazione ciceroniana non minore attenzione merita il nesso causale fra l’attività di pensiero del dio e la plasmazione demiurgica, dato che ben emerge come l’azione del Demiurgo di efficere il dio-cosmo sia conseguenza dell’aver esercitato su di lui un preciso cogitare. Una tale posizione in un certo senso fa corrispondere la causalità efficiente del dio e la sua funzione noetica, evidenziando come il Demiurgo plasmi il mondo grazie all’attività di pensiero. Poiché il ruolo della “attività dell’intelligenza” (νοῦ ἐνέργεια) nella quale consiste la vita eterna e ottima del dio è un tratto della dottrina aristotelica (Metaph. Λ 7.1072b26–28), potrebbe forse essere qui implicata una coloritura aristotelizzante del messaggio platonico. Come nel caso precedente, la resa di Cicerone avrebbe una sede privilegiata nella sensibilità filosofica medioplatonica.Rashed (2020) 216 sottolinea come “l’usage du mot ἐνέργεια au sens d’‘acte-activité’ plutôt qu’‘actualité’ […] constitue déjà la marque de l’exégèse d’Aristote antérieure à Alexandre d’Aphrodise.”Essa sarebbe da porre nel solco di quella tradizione che porterà l’autore del Didaskalikos (cap. 10.2) ad affermare che ὁ πρῶτος θεός, in quanto nous, è la causa “τοῦ ἀεὶ ἐνεργεῖν dell’intelletto di tutto quanto il cielo” e, secoli più tardi, un pensatore come Proclo (In Tim. I 421–422) a sostenere, con un linguaggio di derivazione aristotelica, che “se [il Demiurgo] pensa, e ogni νόησις del Demiurgo è una ποίησις, allora di necessità egli anche agisce αὐτῷ τῷ νοεῖν.”Cfr. Procl. In Parm. IV 844: διὸ καὶ ὡς νοεῖ, ποιεῖ, καὶ ὡς ποιεῖ, νοεῖ, καὶ ἀεὶ ἑκάτερον.Nel Timaeus ciceroniano il verbo cogitare è attestato in altri due luoghi, al §34 dove precisa l’attività intellettiva del dio-Demiurgo, e al §36 dove si riferisce al movimento dell’identico, che è in sé e nel medesimo modo e si caratterizza per la stabilità di pensiero: in ambedue i casi esso traduce διανοεῖν (39e, 40a–b). In quest’opera, dunque, con cogitare Cicerone rende le sfumature lessicali sia di λογισμός/λογίζειν (34a–b) sia di διανοεῖν (39e, 40a–b),Altrimenti, e con sostanziale varietà di soluzioni, Calcid. In Tim. I 26: Haec igitur aeterni dei…; II 32: sic deus in hoc opere suo sensili diuersa animalium genera statuit esse debere; II 33: eademque semper deliberantem ac de isdem ratiocinantem. Su λογίζεσθαι, nell’ambito di una rassegna che comprende la trasposizione di λέγειν, λόγος, λογισμός nel Timaeus, cfr. Celentano (1973) 13–4.vocaboli che per lo più esprimono qualità epistemologiche diverse, nella misura in cui il primo indica un tipo di calcolo possibile per tutti i possessori di logos, mentre il secondo richiama la dianoia.La valorizzazione filosofica interessa entrambi i vocaboli: per esempio, da un lato μόνη πτεροῦται ἡ τοῦ φιλοσόφου διάνοια (Phaedr. 249c), dall’altro l’anima attinge la verità soltanto ἐν τῷ λογίζεσθαι (Phaed. 65b–c); quanto al modo di cogliere le idee, εἰλικρινεῖ τῇ διανοίᾳ, ma anche τῷ τῆς διανοίας λογισμῷ (Phaed. 66a e 79a). A sottolineare la sinergia di funzioni, l’anima ricorre al λογισμόν τε καὶ νόησιν per discernere la realtà (Resp. VII 524b), così come i desideri semplici e misurati sono guidati μετὰ νοῦ τε καὶ δόξης ὀρθῆς λογισμῷ (Resp. IV 431c).Tale scelta è da ricondurre alla tendenza di Cicerone a ridurre le caratteristiche intellettuali attribuite da Platone al dio-Demiurgo, smorzando le sfumature del greco a vantaggio dell’immediatezza di pochi termini chiave, anzitutto iudicare e cogitare.Per esempio, ‘considerare, pensare, riflettere’ (Plat. Tim. 30a ἡγησάμενος : Cic. Tim. 9 iudicabat || 33b νομίσας : 17 eius iudicio || 33d ἡγήσατο : 18 ratus est || 37d ἐνόησεν : - || 37d ἐπενόει : - || 38c ἐξ οὖν λόγου καὶ διανοίας θεοῦ τοιαύτης : - (cfr. Non. 198.30) || 39e διενοήθη : 34 cogitavit), ‘ragionare’ (30b λογισάμενος : 10 cum rationem igitur habuisset), ‘volere’ (30a βουληθεῖς : 9 cum constituisset), ‘rallegrarsi’ ed ‘essere pieno di gioia’ (37c ἡγάσθη, 37c εὐφρανθεὶς : -).Un rapido sguardo all’impiego ciceroniano di cogitare sarà utile per richiamare la pertinenza del vocabolo e mostrare quanto la semplificazione non sia banalizzante. Cogitare indica l’attività riflessiva e meditativa propria dell’essere umano, peculiare sia della sua formazione (hominis mens discendo alitur et cogitando: Off. I 105) sia della riflessione filosofica (cum mecum ipse de immortalitate animorum coepi cogitare: Tusc. I 24). Esso assume anche una valenza metafisica, dato che fra i verbi di pensiero cogitare ben esprime la profondità del processo noetico della divinità: ne evidenzia il momento riflessivo, un ‘agitarsi’ della mens divina, ne precisa la ponderata meditazione che porta alla deliberazione, ovvero annuncia una progettualità intellettiva, la quale nel caso del Demiurgo si realizza nell’ordinamento del cosmo. Non a caso cogitatio sarà l’espressione tecnica indicante l’attività noetica della divinità, dal medioplatonismo latino in avanti.Cfr. e.g. Apul. Plat. dogm. I 205 e II 253; anche ps.-Apul. Asclep. 26.Ulteriori elementi che favoriscono la tesi di un platonismo ciceroniano in dialogo con influenze filosofiche di altra provenienza sembrano potersi ravvisare nel menzionato §34: Quot igitur et quales animalium formas mens in speciem rerum intuens poterat cernere, totidem et tales in hoc mundo secum cogitavit effingere. Il secum precisa come l’attività di pensiero del dio-Demiurgo sia condotta ‘tra sé e sé’. Questo rivolgimento interiore, seppur non accostabile a una forma di auto-pensiero, denota la meditazione profonda della divinità, impegnata in una progettualità cosmica. Se il secum cogitare quale restituzione di διανοεῖν si può spiegare in un’ottica platonica richiamando l’interiorità della dianoia,In Plat. Soph. 263e la διάνοια è διάλογος ἄνευ φωνῆς, condotto ὁ μὲν ἐντὸς τῆς ψυχῆς πρὸς αὑτὴν.l’accostamento di questa introspezione alla progettualità cosmica accentua la compresenza di attività noetica e operativa della divinità. Come si è detto, Cicerone instaura una stretta correlazione fra l’attività di pensiero del dio e la realizzazione demiurgica che ne consegue: laddove in Platone si legge διενοήθη δεῖν καὶ τόδε σχεῖν (39e) – espressione che privilegia l’intenzione del Demiurgo e la convenienza della sua scelta (sc. la conformità del cosmo al modello intelligibile) – con secum cogitavit effingere l’Arpinate non esita a conferire all’immagine un effetto plastico, restituendo l’immagine di un Demiurgo all’opera (cfr. §20 haec cogitans […] effecit).Ancora una volta, Cicerone ritrae non il ragionamento del dio, ma il dio nell’atto di pensare. Al §34 il secum cogitare non tratteggia più tanto la dimensione intellettiva del Demiurgo platonico come contemplazione delle idee, ma pare allusiva di una fase progettuale che si realizza in dio. È ben nota l’importanza che Filone di Alessandria assegnerà al ruolo del Dio-Demiurgo come Artefice e come Architetto, il quale non solo plasma il cosmo, ma prima di tutto pianifica i dettagli della propria opera.Sull’immagine del Dio ‘architetto’ in Filone cfr. Radice (1989) spec. 178–80 e 196–201.Nel Timaeus ciceroniano non passa inosservata la qualifica del Demiurgo come ‘Architetto’, oltre che come Artefice, peraltro in passi privi di corrispondenza con Platone, rispettivamente al §7 aedificator (29a ὁ δ’ ἄριστος τῶν αἰτίων) e al §17 effector mundi et molitor deus (33a ἐτεκτήνατο).Sulla prossimità di aedificator ad architectus cfr. TLL, s.v. aedificator; peraltro, su architectus cfr. Cic. Nat. deor. II 89: sic philosophi debuerunt […] intellegere inesse aliquem non solum habitatorem in hac caelesti ac divina domo sed etiam rectorem et moderatorem et tamquam architectum tanti operis tantique muneris. Sulla valenza di molitor, e il rilievo conferito alla progettazione, cfr. TLL, s.v. molior 1. Sulla compresenza di attività demiurgica e progettuale cfr. Cic. Nat. deor. I 18: opificem aedificatoremque mundi Platonis de Timaeo deum.È plausibile che questa simile caratterizzazione del Demiurgo in Cicerone e Filone sia espressione di una linea di pensiero che va sviluppandosi.Estendendo lo sguardo ad altri luoghi del corpus ciceroniano, si ricava l’indicazione della ‘trasversalità filosofica’ del nesso deus cogitans. La nozione è presente in due passi, entrambi polemici. Il primo è in Nat. deor. I 54, nell’interrogativo Quis enim non timeat omnia providentem et cogitantem et animadvertantem et omnia ad se pertinere putantem curiosum et plenum negotii deum? rivolto dall’epicureo Velleio a Balbo, dove il riferimento sarcastico è al dio stoico che “a tutto provvede, pensa e vigila”, ovvero agisce al modo di un implacabile tiranno, dato che, fra necessità del fato e catena delle cause, questo sempiternus dominus è sempre pronto a stare col fiato sul collo degli uomini. Il secondo è in Nat. deor. I 114, dove l’accademico Cotta, nel presentare i tratti della divinità epicurea, sostiene che tale dio, esente dal dolore, cogitat […] adsidue beatum esse se; habet enim nihil aliud quod agitet in mente, ossia pensa e non ha altro per la mente che l’essere costantemente felice; si tratta di un deum nihil aliud in omni aeternitate nisi ‘mihi pulchre est’ et ‘ego beatus sum’ cogitantem.Sull’auto-pensiero di dio nell’epicureismo cfr. Piergiacomi (2017) 187–9.L’argomentazione dà modo a Cotta di concludere che il dio epicureo, senza sosta urtato da un eterno scontro di atomi, non è né beatus né aeternus, opponendosi così alla presentazione di Velleio, nelle cui parole la beatitudine e l’eternità del dio sono sottolineate a più riprese (cfr. Nat. deor. I 45), come eco di salienti passi epicurei (e.g. RS 1; Men. 123–124; et alia).3Eternità e perfezioneI temi di Nat. deor. I 114 introducono all’esame di un altro luogo del Timaeus ciceroniano,La corrispondenza interna fra Timaeus e De natura deorum è ben attestata. Caso emblematico concerne Tim. 17 e Nat. deor. II 47, che presentano le medesime parole nihil asperitatis […] nihil offensionis […] nihil incisum angulis, nihil anfractibus, nihil eminens, nihil lacunosum, amplificando il corrispondente passo in Plat. Tim. 33b. Sedley (2013) 191–3 considera la ripetizione un argomento valido a qualificare il Timaeus ciceroniano come un’opera incompiuta e abbandonata: “A very natural inference is that by the time of writing ND 2 he had decided to abandon the unfinished work in which the Timaeus translation had been due to appear, and therefore felt fully justified in rescuing material from it by transferring it across into his new dialogue.” Già Lambardi (1981) 18–21, pur propendendo per “considerare interpolato il passo del Timaeus”, non esclude che “al momento di comporre il II De nat. deor. Cicerone avesse ormai rinunciato a realizzare l’opera per la quale, volgendo il Timeo, aveva già predisposto certo materiale, sicché traeva tutto quanto era utilizzabile dalla traduzione non più destinata al pubblico.” Giomini (1968) 67–71 parla di “un aspetto della tecnica digressiva ed estensiva non infrequente in Cicerone”, con intenzioni polemiche nei confronti dell’epicureismo. Sulla questione cfr. anche Pini (1968) 115–6 n. 19.offrendo indizi per una sua possibile interpretazione, anch’essa forse in chiave anti-epicurea.L’inizio del §21 Sic deus ille aeternus hunc perfecte beatum deum procreavit, in corrispondenza di 34b διὰ πάντα δὴ ταῦτα εὐδαίμονα θεὸν αὐτὸν ἐγεννήσατο, evidenzia due elementi estranei al testo greco. Il primo è l’eternità del dio-Demiurgo (deus ille aeternus), aggiunta sulla cui giustificazione si è per lo più glissato,Non così per Cic. Tim. 7, dove la problematicità del duplice aggettivo aeternus – assente in greco – è stata discussa sotto varie prospettive: cfr. Lambardi (1982) 130, Powell (1995) 281 e 287, Lévy (2003) 103, Aronadio (2008) 111–2, Luciani (2010) 219–21, e Hoenig (2018) 97–101.con l’eccezione di chi ha ritenuto la perifrasi un espediente impiegato da Cicerone per distinguere il Demiurgo dagli dèi generati,Luciani (2010) 221; cfr. Lévy (2003) 102.e di chi invece ha sottolineato come l’eternità sia implicita nella stessa nozione di dio.È quanto sostenuto da Lambardi (1982) 10 n. 3 a riguardo di Cic. Tim. 8 quantum enim ad id, quod ortum est, aeternitas valet, tantum ad fidem veritas, resa di Plat. Tim. 29c ὅτιπερ πρὸς γένεσιν οὐσία, τοῦτο πρὸς πίστιν ἀλήθεια. La studiosa parla di “una specie di metonimia logica, ogni volta che la nozione astratta è come suggerita al lettore dalla traduzione proposta, la quale è, per così dire, parziale rispetto al termine platonico a cui si riferisce”; di preciso, “l’‘eternità’ è solo uno degli attributi dell’οὐσία platonica”; cfr. ivi 124–30. Sul passo si veda anche la prospettiva di Luciani (2010) 216–8: “l’assimilation de l’Être à l’éternité substitue à une opposition d’ordre ontologique une distinction d’ordre temporel.”Secondo elemento introdotto è l’avverbio perfecte a precisare la felicità del cosmo.In questa caratterizzazione del dio-Demiurgo e del dio-cosmo, l’uno aeternus e l’altro perfecte beatus, il conferimento della perfetta felicità a un ente fisico, per quanto eminente, non passa inosservato.Cfr. Fowler (2016) 153 n. 55.Platone considera il cosmo come dio εὐδαίμων, ma non gli attribuisce la suprema εὐδαιμονία, come si osserva in Timeo 92c, dove il κόσμος, ζῷον ὁρατόν nonché εἰκὼν τοῦ νοητοῦ θεὸς αἰσθητός, è così descritto: μέγιστος καὶ ἄριστος κάλλιστός τε καὶ τελεώτατος γέγονεν εἷς οὐρανὸς ὅδε μονογενὴς ὤν, da cui si evince che il cosmo è dotato delle più nobili qualità quanto a grandezza, bellezza e perfezione, mentre nulla si dice della massima felicità.Evidentemente difficile a tale altezza ontologica: cfr. Plat. Pol. 269d ὃν δὲ οὐρανὸν καὶ κόσμον ἐπωνομάκαμεν, πολλῶν μὲν καὶ μακαρίων παρὰ τοῦ γεννήσαντος μετείληφεν, ἀτὰρ οὖν δὴ κεκοινώνηκέ γε καὶ σώματος. Secondo Napolitano Valditara (2005) 839–40, è già significativo che in Tim. 34b il cosmo, dio generato, sia detto εὐδαίμων, considerato che l’esplicitazione della piena felicità manca persino per il Demiurgo.Le possibili ragioni di una tale resa sono varie. Cicerone potrebbe aver ripreso la nozione di perfezione esplicitata al §20, intendendola non solo in riferimento al corpo del cosmo, ma anche in relazione alla felicità. Secondo una proposta interpretativa, con la formula perfecte beatum deum egli avrebbe inteso ridurre le differenze fra il Demiurgo e il cosmo in quanto dio creato.Lévy (2003) 102.La perfetta felicità del cosmo è un tratto peculiare dell’esegesi di Cicerone, come mostra il fatto che Calcidio e Marsilio Ficino, interpreti del dialogo platonico, si muovono in altra direzione, il primo restituendo il passo in summe beatum […] genuit (In Tim. I 26), il secondo traducendo mundum opifex eius beatum deum efficit. La sottolineatura, tutta ciceroniana, di questo connotato invita dunque a non escludere che perfecte sottenda un significato filosofico. La possibilità che l’avverbio non si riduca a comunicare un grado massimo di intensità, come nel caso della lettura calcidiana, è sostenuta dall’importanza conferita da Cicerone nel Timaeus alla nozione di perfezione, restituita in un modo, vario e articolato, che lascia intuire uno sforzo interpretativo. A fronte di pochi casi di piena rispondenza fra τέλειος e perfectus,Cfr. Cic. Tim. 16 ex perfectis partibus […] perfectus : Plat. Tim. 32d–33a τέλεον ἐκ τελέων τῶν μερῶν.nell’ambito della rielaborazione del modello si osservano casi di introduzione della nozione dove essa manca nel greco.Cfr. Cic. Tim. 11 sunt enim omnia in quaedam genera partita aut inchoata, nulla ex parte perfecta : Plat. Tim. 30c τῶν μὲν οὖν ἐν μέρους εἴδει πεφυκότων || 21 hunc perfecte beatum deum : 34b εὐδαίμονα θεὸν αὐτὸν. Cfr. anche 17 unum opus totum atque perfectum ex omnibus totis atque perfectis : 33a τόνδε ἕνα ὅλον ὅλων ἐξ ἁπάντων τέλεον, che gioca sul parallelismo della struttura e introduce un atque perfectis (sulla lezione ἐξ ὅλων ἁπάντων cfr. app. cr. in Rivaud 1925 e Burnet 1902).Significativa è la constatazione di come Cicerone sembri avvertire l’imprecisione del vocabolo perfectus,Così Montanari (1976) 248–9: “per Cicerone ovviamente perfectus da solo non bastava, e lo intendeva, o temeva fosse per lo più inteso, nel più generico valore valutativo su piano estetico o morale, a discapito del valore originario di *per-factus. Per rendere dunque il complesso, e ambiguo, τέλεος, Cicerone ha preferito ricorrere alla dittologia esegetica perfectus atque absolutus.”e si adoperi per rinforzarne l’efficacia mediante l’accostamento ad absolutus, dando così luogo a una iunctura ampiamente documentata.Cfr. Cic. Tim. 33 absoluto perfectoque numero temporis absolutum annum perfectumque : Plat. Tim. 39d ὅ γε τέλεος ἀριθμὸς χρόνου τὸν τέλεον ἐνιαυτὸν || 20 parem et perfectum atque absolutum ex absolutis atque perfectis : 34b ἴσον καὶ ὅλον καὶ τέλεον ἐκ τελέων σωμάτων || 11 inperfecto… nec absoluto : 30c ἀτελεῖ.Anche la proposizione caeli absolutio perfecta non erit §41, quale resa di οὐρανὸς ἀτελὴς ἔσται 41b, con il cambio di soggetto (non il cielo, ma la perfezione del cielo), conferma l’attenzione di Cicerone per il tema e la sua predilezione per un accostamento terminologico che, al di là delle valutazioni stilistiche, può ritenersi d’interesse filosofico, se ricorre sovente e per lo più in contesti che risentono di influenze stoiche o tendono ad accentuare la sinergia dell’insegnamento accademico-peripatetico con lo stoicismo.Cfr. e.g. Cic. Tusc. II 51 ratio, quae erit in eo perfecta atque absoluta (Maso 2009, 96 si riferisce al passo come designante il livello della “utopia stoica”), V 39 perfecta mens, id est absoluta ratio, quod est idem virtus; Fin. IV 37 sapientes… absolutos et perfectos, IV 58 quae coniuncta cum honestis vitam beatam perficiunt et absolvunt, V 69 ipsam honestatem undique perfectam atque absolutam; Nat. deor. II 34 (cfr. SVF I 529) mundo, in quo necesse est perfectam illam atque absolutam inesse rationem, II 38 (= SVF II 641) item quod in omni mundo optimum sit id in perfecto aliquo atque absoluto esse debere; est autem nihil mundo perfectius nihil virtute melius; igitur mundi est propria virtus.Premesso che Cicerone non opera a livello di pedissequa riproduzione del concetto, ma è solito filtrare l’eredità del passato restituendone una personale rielaborazione, in via congetturale vorrei sondare l’ipotesi che il termine conferisca qui all’espressione una tonalità aristotelizzante.Su perficere/ἐνεργεῖν cfr. TLL, s.v. perficio. È suggestivo che Calcidio ricorra ad absoluta perfectio per definire il termine aristotelico ἐντελέχεια: in Tim. cap. 222 Aristoteles ‘entelechiam’, id est absolutam perfectionem, vocat. Sul perficere, come attività propria del motore immobile, cfr. Dante, Par. VIII 109–111 “e ciò esser non può, se li ’ntelletti | che muovon queste stelle non son manchi, | e manco il primo, che non li ha perfetti.”L’avverbio perfecte, per etimo connesso a perficere, esprime la condizione di eccellenza come compiutezza. Più che la somma felicità della divinità e la sua beatitudine,Attestata in modo trasversale: dall’essere εὐδαίμων nonché εὐδαιμονέστατος (e.g. Plat. Phaedr. 247a, Theaet. 176e; Aristot. Metaph. Β 4.1000b3–4) al carattere μακάριος e beatus (e.g. Epicur. Men. 123 e cfr. Pyth. 97; SVF I 88 e cfr. II 635; sul βίος μακαριώτατος cfr. Philod. Piet. col. 44, ll. 1264–1266 Obbink).è la perfezione di tale stato in quanto compiuta realizzazione a richiamare l’attenzione. La tesi da esplorare riguarda la concezione di un cosmo perfecte felice (come a dire, dotato di una beatitudo perfecta), poiché la sua felicità è essa stessa un perficere o l’esito di tale attività. Cicerone, sulla scia di Platone, spiega che la felicità del cosmo deriva dall’apporto vivificante dell’anima, in conseguenza del quale il cielo si muove di moto circolare, bastevole a se stesso, sufficientemente autocosciente e dotato di amor proprio (§20 satis sibi ipsum notum et familiare/34b γνώριμον δὲ καὶ φίλον ἱκανῶς αὐτὸν αὑτῷ). Spostando il focus dal causato alla causa, si può riflettere sul fatto che l’azione procreativa del dio aeternus (Demiurgo) sul dio sensibile (cosmo) sia tale da dotare quest’ultimo di una condizione felice perfettamente attuata; infatti, pur vertendo su beatum, sotto il profilo del senso l’avverbio perfecte può considerarsi non disgiunto da procreavit, con la conseguenza di riverberarsi sull’attività del dio. Tenuto conto della rispondenza fra opera e Artefice, dinanzi a una felicità del cosmo perfetta, in quanto risultante del perficere divino, si dovrà supporre che l’ottimo Artefice sia anche compiutamente felice e tale sia il suo agire.In Plat. dogm. I 190 Apuleio riferisce che, secondo Platone, il dio è beatus et beatificus, ossia “felice e fonte di felicità” (l’agg. beatificus risulta avere qui la prima attestazione).In tal caso, se l’argomentare è platonico, implicito nel principio per cui all’ottimo è lecito fare solo ciò che è bellissimo (§10/30a), altre sfumature sembrano implicate. In Metaph. Λ 7.1072b14–30 Aristotele descrive la vita sempre eccellente del motore immobile, dio eternamente felice, la cui attività è di per sé piacere (ἐπεὶ καὶ ἡδονὴ ἡ ἐνέργεια τούτου), non solo perché – come si legge in Eth. Nic. VII 15.1154b26–28 – l’atto dell’immobilità indica perfezione ed è piacevole, ma anche perché la θεωρία, l’attività noetica che egli esercita in quanto intelligenza che pensa se stessa, costituisce τὸ ἥδιστον καὶ ἄριστον.Sulla εὐδαιμονία come ἐνέργεια cfr. anche Aristot. Eth. Eud. II 1.1219a34–39, Eth. Nic. I 13.1102a5–6, e IX 9.1169b28–29.Ad accentuare la qualità della vita del dio, eterna e ottima, sta il fatto che egli non solo εὖ ἔχει, ma vive tale vita felice in modo duraturo, come si chiarisce nella celebre chiusa φαμὲν δὴ τὸν θεὸν εἶναι ζῷον ἀΐδιον ἄριστον, ὥστε ζωὴ καὶ αἰὼν συνεχὴς καὶ ἀΐδιος ὑπάρχει τῷ θεῷ· τοῦτο γὰρ ὁ θεός.Cfr. Aristot. Εth. Εud. VII 12.1245b16–19.Una familiarità con tali dottrine, o con altre orientate in simile direzione, potrebbe aver suggerito gli elementi per l’originale esegesi ciceroniana. Qualora l’ipotesi di una rielaborazione in prospettiva aristotelizzante sia fondata, un sotteso intento polemico nei riguardi dell’epicureismo è plausibile.Non quello dei discepoli che attribuirono al dio una parziale attività (e.g. Ermarco e Filodemo: cfr. Piergiacomi 2017, 141–51 e 209–24), ma quello dogmatico, ben rappresentato da Velleio, portavoce di una dottrina secondo cui la divinità è del tutto inattiva. Come si legge in Nat. deor. I 114, la natura aeterna e beatissima degli dèi epicurei deriva a loro dall’assenza di operatività, dall’assoluta quiete e dalla totale atarassia del loro vivere; cfr. Nat. deor. I 51, dove il dio nihil enim agit, nullis occupationibus est inplicatus, nulla opera molitur. Nell’ottica epicurea non si tratta affatto di impoverimento; come ricorda Verde (2013) 148–9, sulla scorta della relazione fra μακαριότης e πᾶν τὸ σέμνωμα attestata in Hrdt. 149–150, “attribuire a dio la completa inattività significa per Epicuro attribuirgli un onore e una maestà tali da rendere la divinità un essere del tutto incommensurabile rispetto a qualunque altra realtà.” Per una simile strategia polemica contro l’epicureismo cfr. Cic. Nat. deor. I 33 (= Aristot. Περὶ φιλοσοφίας fr. 26 Ross, 39 Untersteiner, 25.1 Gigon): tale passo, rileva Maso (2008) 177–8, “presenta tutti gli elementi di una diatriba finalizzata a screditare, a livello di superficie, Aristotele; a livello più sotterraneo, chi sta tentando di screditare Aristotele: gli Epicurei.”La proposizione al §21 solleva altri spinosi interrogativi, potenzialmente significativi della collocazione del Timaeus ciceroniano nel solco della tradizione platonica e delle molteplici influenze sue peculiari. Si è visto come Cicerone tratti qui in modo autonomo i concetti di eternità e perfezione, a cui dà particolare enfasi, attribuendo il primo al Demiurgo e il secondo al dio sensibile. Questione ineludibile è se nell’affermazione sia da ravvisarsi una qualche forma di contrapposizione o se ambedue le caratterizzazioni, il dio-Demiurgo eterno e il dio-cosmo perfettamente felice, siano da leggere sotto la lente dell’eternalismo. Per l’esegesi del passo è decisivo comprendere se hunc perfecte beatum implichi di per sé anche l’eternità del cosmo oppure se, valorizzando un’antitesi assente in Platone, Cicerone delinei un quadro in cui l’eternità si predica solo del dio-Demiurgo.Quale si vedrà nell’ambito della letteratura ermetica imperiale: cfr. ps.-Apul. Asclep. 31, dove l’eternità è attributo esclusivo del dio, mentre il cosmo è aeternitatis imitator.Quest’ultimo scenario, con un platonismo dagli spiccati influssi stoici, si incontra in effetti in Somnium Scipionis 26, passo che può essere confrontato con quello del Timaeus anche per l’affine formula ipse deus aeternus indicante il dio-Demiurgo. Nell’ambito di un parallelismo fra l’anima e il dio, così come fra il corpo umano e il corpo del mondo, nel Somnium Scipionis alla guida del cosmo è presentata la figura di ille princeps deus, del quale si dice che et ut mundum ex quadam parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus sempiternus movet. Tale descrizione, che non lascia spazio a dubbi circa una distinzione dal sapore stoico fra il mundum mortalem e il deus aeternus,Si pensi alla contrapposizione, sinergica, fra un significato di cosmo equipollente a quello di un dio-Demiurgo che ἄφθαρτός ἐστι καὶ ἀγένητος, δημιουργὸς ὢν τῆς διακοσμήσεως e la concezione secondo cui φθαρτὸν εἶναι τὸν κόσμον (Diog. Laert. VII 137 e 141 = SVF II 526 e 589).evidenzia anche, a metà strada fra concezione aristotelica e platonismo-stoicizzante, la causalità cinetica del dio eterno nei confronti del cosmo corruttibile. Che Cicerone adombri un siffatto scenario anche nel Timaeus sembra però incompatibile con la sentenza sic deus ille aeternus hunc perfecte beatum deum procreavit, non solo perché la beatitudine della divinità è per tradizione espressione della sua natura eterna,Cfr. Cic. Nat. deor. II 21 (= SVF I 111): similiter effici potest sapientem esse mundum, similiter beatum, similiter aeternum.ma anche perché l’eternità del cosmo è deliberatamente precisata al §7, dove senza equivoco si legge: ex quo efficitur, ut sit necesse hunc, quem cernimus, mundum simulacrum aeternum esse alicuius aeterni. Ciò nondimeno, proprio introducendo per ben due volte la nozione di eterno assente nel corrispondente greco τούτων δὲ ὑπαρχόντων αὖ πᾶσα ἀνάγκη τόνδε τὸν κόσμον εἰκόνα τινὸς εἶναι (29b), l’Arpinate dà prova di far slittare la concezione platonica su di un altro piano filosofico, come la connotazione di per sé stridente di simulacrum aeternum evidenzia.Secondo Aronadio (2008) 112, “la traduzione ciceroniana assume la forma di una più radicale translatio concettuale, verisimilmente condizionata dall’influenza esercitata su Cicerone dalle concezioni fisiche degli Stoici.” Luciani (2010) 220 è propensa a ravvisare nell’eternità del cosmo “la trace d’une influence stoïcienne, voire aristotélicienne, dans la mesure où elle trahit une difficulté à rendre compte des rapports entre image et modèle”; da ciò non sembra però doversi concludere – come invece ella ritiene – una valorizzazione del mondo sensibile “au détriment” del modello intelligibile, in conseguenza della quale “Cicéron se trouverait en quelque sorte piégé par les concepts aristotéliciens et stoïciens, dont il ne parviendrait pas à se libérer.” Per la problematicità del luogo, e la discussione critica, cfr. supra n. 56.Quanto alla difficoltà interpretativa che ne deriva, il darsi di un mondo generato dal Demiurgo e al contempo eterno, se un influsso paneziano non è da escludere,In Philod. Stoic. hist. col. LXI Dorandi (= 1 Alesse) Panezio è ricordato per essere stato φιλοπλάτων e φιλοαριστοτέλης al punto da respingere alcune dottrine di Zenone a favore di quelle dell’Accademia e del Peripato, come nel caso del rifiuto della conflagrazione per l’eternità del cosmo (131–133 Alesse); cfr. Alesse (1997) 266. Si tenga conto della questione del Πλάτων ὁ Παναιτίου, testimoniato da Gal. Indol. 13; Dorandi (2014) 16–20 ritiene che si tratti di una copia in possesso di Panezio eventualmente annotata per uso personale (contra J.-B. Gourinat, sostenitore di un’edizione paneziana di Platone).la giustapposizione di elementi filosofici eterogenei modulati in un intreccio di posizioni accademico-peripatetiche e stoiche suggerisce quale possibile precedente Antioco di Ascalona. In bilico fra dissenso e amore quasi in una sorta di odi et amo,Cic. Lucul. 133 (= F5 Sedley): ipse Antiochus dissentit quibusdam in rebus ab his quos amat Stoicis.con una vis almeno sospetta, Cicerone (Lucul. 132 = F5 Sedley) ricorda come Antioco fosse Accademico ‘di nome’ ma per il resto germanissimus Stoicus; in modo simile, per sottolineare la distanza da Filone di Larissa, Sesto Empirico (PH I 235 = F1 Sedley) attribuisce ad Antioco un traghettamento della Stoa verso l’Accademia (ἀλλὰ καὶ ὁ Ἀντίοχος τὴν Στοὰν μετήγαγεν εἰς τὴν Ἀκαδημίαν), fondato sul riconoscimento della presenza di dogmi stoici già in Platone. Eppure, al di là delle enfasi polemiche implicate nelle testimonianze,Nel caso di germanissimus Stoicus Grilli (1975) 77 parla di “evidente esagerazione polemica.” Per altre testimonianze sullo stoicismo di Antioco cfr. Barnes (1989) 78–9.fermo restando il suo qualificarsi come fautore di un ritorno alla vetus Academia, si è riconosciuto ad Antioco un sapiente impiego della terminologia stoica e di alcune concezioni della Stoa, rielaborate in modo da non risultare in aperto conflitto con l’insegnamento di Platone e Aristotele.Come ricorda Inwood (2012) 193, “to judge from Cicero’s account […] Peripatetic physics was alleged by Antiochus to have included more detail but not to be in basic conflict with Stoic theory.” L’impiego, anche sotto forma di amalgama, di stoicismo e aristotelismo da parte di autori platonici sarà ben attestato nei secoli successivi: cfr. e.g. Porph. vita Plot. 14: ἐμμέμικται δ’ ἐν τοῖς συγγράμμασι καὶ τὰ Στωικὰ λανθάνοντα δόγματα καὶ τὰ Περιπατητικά· καταπεπύκνωται δὲ καὶ ἡ Μετὰ τὰ φυσικὰ τοῦ Ἀριστοτέλους πραγματεία.Questa lettura di Platone, “which conforms largely to the Stoic agenda”, trova efficace esemplificazione proprio nell’interpretazione antiochea del Timeo, dove, per il poco che è dato sapere, si ravvisa la tendenza ad interpretare il dialogo alla luce di uno schema dualistico di principio attivo e passivo.Tsouni (2019) 8. La studiosa pone l’accento sul fatto che “the adoption of Stoic material in this case serves the defence of the Academic tradition and not the creation of a composite system” (ivi, 13–4); sulla lettura del Timeo cfr. ivi, 65–9.In nota a queste considerazioni si aggiunga un tassello a riguardo della probabile conoscenza ciceroniana della nozione aristotelica di atto. Ai nostri fini, è utile non tanto tornare alla celebre e controversa testimonianza riguardante la confusione fra ἐντελέχεια e ἐνδελέχεια (Tusc. I 22 = Aristot. Περὶ φιλοσοφίας fr. 27b Ross, 30 Untersteiner; ma 994 Gigon),Il giudizio degli studiosi spazia dall’errore di Cicerone per mera confusione (LSJ, s.v. ἐντελέχεια) al fraintendimento filosofico (Berti 1997, 19 e 319–26; cfr. Dillon 2016, 194 che individua Critolao come possibile “source of the confusion”) alla giustificazione della designazione dell’anima come ἐνδελέχεια (cfr. Untersteiner 1963, 269–74). Quanto all’ἐντελέχεια ci si limita qui a ricordare che Aristotele la associa a ἐνέργεια (Metaph. Θ 3.1047a30–31, e Θ 8.1050a21–23), nel senso che “la notion de perfection et la notion d’acte se compénètrent donc; mais l’acte en tant que perfection est mieux nommé ἐντελέχεια que ἐνέργεια” (Pépin 1964, 209 n. 1), e che è detta anche del motore immobile (Λ 5.1071a36, e Λ 8.1074a35–36); sulla questione cfr. Berti (1990).ma ricordare piuttosto l’impiego del termine actio a rendere ἐνέργεια,Cfr. Tsouni (2019) 57 e 150.e soffermarsi su quella che sembra la presenza di questo concetto negli Academica I 6. In veste di portavoce del messaggio di Antioco di Ascalona,Come testimonia lo stesso Cic. Att. XIII 12.3, 16.1, 19.3, 25.3.Varrone sostiene: nostra tu physica nosti; quae cum contineantur ex effectione et ex materia ea quam fingit et format effectio, adhibenda etiam geometria est. Il termine effectio sta qui a indicare, in senso platonico, la causa efficiente che plasma (fingit et format) il ricettacolo materiale, ma potrebbe altresì adombrare, in accezione aristotelica, la capacità dell’atto di dare forma compiuta alla potenza, ovvero di dare effectus alla potenzialità della materia, giacché questa ne è il luogo specifico.Cfr. e.g. Aristot. Metaph. Θ 8.1050a15 e 1050b27–28; Λ 2.1069b31–32 e Λ 10.1075b22–23.Si tratta di un accostamento di prospettive nemmeno troppo audace, se si considera la posizione di Antioco, secondo cui, una et consentiens duobus vocabulis philosophiae forma instituta est Academicorum et Peripateticorum, qui rebus congruentes nominibus differebant (Cic. Acad. I 17 = F7 Sedley).4Bilancio conclusivoNell’ambito della cornice platonica nella quale il Timaeus ciceroniano si inscrive, i pochi e sparsi segnali di possibili sfumature peripatetizzanti non sono privi di interesse, né per la coerenza strutturale dell’opera né per la storia dell’aristotelismo tardo ellenistico.Se le considerazioni avanzate sono valide, si tratterebbe di un fatto meritevole di attenzione non solo per l’aggiunta di tessere al problematico mosaico della conoscenza ciceroniana dell’aristotelismo, ma anche perché potrebbe offrire ulteriori piste in merito alla complessa questione della circolazione degli scritti aristotelici alla metà del sec. I a.C.Come ricorda Maso (2008) 49 n. 32, “Cicerone potrebbe aver visto e letto i libri di Aristotele che Silla aveva recuperato in Grecia e che si suppone fossero poi finiti nella biblioteca di Fausto, il figlio del dittatore: in Cic. Att. 4.10.1 si legge infatti: ego hic pascor bibliotheca Fausti. Certamente frequentò la biblioteca di Lucullo e vi cercò […] commentarios Aristotelios, fin. 3.10. Di sicuro Tirannione, l’amico di Cicerone, conobbe i libri aristotelici, e potrebbe averne fatta un’edizione. La cosiddetta edizione di Andronico di Rodi è invece da considerarsi posteriore alla morte di Cicerone.” Per altri dettagli sulla possibile consultazione da parte di Cicerone di opere aristoteliche nella biblioteca di Fausto nel 55 a.C., nonché sull’acquisizione di libri in seguito all’asta del 49 a.C. (Plut. Cic. 27.6), si veda Dix (2004) 67–9; contra Barnes (1997) 17.Come le altre opere del 45 a.C., il Timaeus costituisce una sede privilegiata per valutare luci e ombre della posizione di Cicerone nei confronti della cosiddetta rinascenza metafisica dopo la fase ellenistica segnata da un prevalente materialismo; più dei trattati filosofici, proprio per il suo carattere progettuale, il Timaeus restituisce la percezione di un’opera collocata sul crinale di una svolta. Considerato che la presenza nel Timaeus di un esponente della scuola peripatetica nel contesto di una discussione filosofica rappresenta un unicum nella produzione ciceroniana,Cfr. Hoenig (2018) 54–5.è lecito presumere che l’Arpinate avesse a disposizione gli argomenti e una documentazione testuale sufficienti almeno a giustificare l’inserimento di un tale personaggio.Certamente restano da accertare i contorni e la provenienza di tali dottrine, e non pochi problemi persistono in ragione proprio delle incertezze riguardanti le vicende degli scritti aristotelici, incluse quelle relative alla redazione andronichea del corpus Aristotelicum.Sulla datazione alta o bassa dell’edizione di Andronico, e la connessa conoscenza di Cicerone del lavoro svolto dall’editore di Rodi, cfr. e.g. Barnes (1997) 21–4 (in particolare l’argumentum ex silentio verso Andronico di Rodi e Boeto di Sidone), Donini (1994) 5032–3, Gottschalk (1987) 1086 e 1095–7, e Rashed (2021) ccclxi-v (Andronico lavorò ai Pinakes in Alessandria e dal 30 a.C. seguì Augusto a Roma, dove completò l’opera).Andrà però riconosciuto che l’edizione di Andronico, a buon diritto elevata dalla tradizione a pietra miliare nella riscoperta della dottrina aristotelica, se rappresenta l’ideale avvio di una nuova stagione del pensiero, costituisce altresì il punto di approdo di un’esigenza filosofica e di un percorso esegetico ben anteriori allo stesso Andronico,Come riluce in Chiaradonna (2011).esito dei progressi della filologia ellenistica. Ciò impone di non escludere a priori la sopravvivenza di circoli di sapere aristotelico, in forme ed estensione tuttora oggetto di indagine.Si vedano i risultati di Pajón Leyra (2013).Accanto ad influssi dell’Aristotele essoterico, non è impossibile che Cicerone (formatosi sia ad Atene sia a Rodi) abbia potuto fare sue concezioni presenti nelle opere di scuola, all’epoca in corso di ‘riscoperta’. A beneficio della coerenza d’impianto del Timaeus, non è quindi senza fondamento che un accademico quale l’Arpinate abbia potuto recepire il senso di alcune annotazioni aristotelico-peripatetiche. Per tale ragione si può ipotizzare che, nella consapevolezza del potenziale della lingua latina (cfr. Fin. I 10; Tusc. I 1), egli ne abbia tentato una coraggiosa trasposizione proprio nel suo Timaeus, abbozzando una cornice in cui sono ritratti il pitagorico Publio Nigidio Figulo e il peripatetico Cratippo.Pari interesse, e non minore difficoltà, solleva la questione di una possibile imputabilità delle allusioni aristotelizzanti a Cratippo, lo stimato precettore del figlio Marco (cfr. 7–13 Dorandi-Verde). Il terreno su cui ci si muove è incerto, ma alla luce dei dati esaminati si può tentare di tratteggiare un percorso orientativo. Da un lato, a fronte delle poche reliquiae disponibili, si sa che la filosofia di Cratippo era volta principalmente alla divinazione; poiché però questo tema nelle sue linee essenziali si riduce all’indagine sull’anima e il nous,Come emerge da Verde (2018).un qualche interesse di Cratippo per il Timeo potrebbe essere fondato. Un argomento a supporto è fornito da De officiis III 121 (= 13 Dorandi-Verde): nella dedica conclusiva, Cicerone prega il figlio Marco di accogliere di buon animo i suoi tre volumi, dedicando loro del tempo inter Cratippi commentarios. Dalla testimonianza è legittimo concludere che Cratippo compose altre opere, benché se ne ignorino i titoli e il contenuto.Cfr. Dorandi and Verde (2019) 138.D’altro canto, una traduzione quale il Timaeus che rivela un platonismo non solo vagamente stoico, ma a tratti aristotelizzante, potrebbe ragionevolmente (e con maggiore agio) essere ricondotta all’operazione conciliante di Antioco di Ascalona, che anche nella fisica cercò di mediare fra le posizioni di Platone e di Aristotele, argomentando a favore di una strutturale affinità tra le due scuole.La cautela impone di non escludere l’una e l’altra soluzione. Poiché molti dettagli sfuggono, converrà adottare una strategia in utramque partem e, procedendo per approssimazione, rilevare quanto segue. Nel Timaeus ciceroniano la modalità con cui tracce di aristotelismo affiorano accanto a motivi stoici e accademici suggerisce quale via interpretativa preferenziale la mediazione di colui che fu l’interprete chiave (ma non esclusivo)Né l’unico né il primo, se, come suppone Verde (2019) 372, già prima di Antioco l’epicureo Colote – “obviously mutatis mutandis and for very different reasons and purposes” – teorizzò l’armonizzazione delle dottrine fra Platone (e gli Accademici) e Aristotele (e i Peripatetici).della sinergia fra le dottrine di Platone e Aristotele: Antioco di Ascalona. D’altro canto, se fonti e studi confermano il platonismo aristotelizzante di Antioco, e il suo indubbio interesse per Aristotele e Teofrasto, incerta è la valutazione del tipo di aristotelismo antiocheo. Si è rilevato che dalle testimonianze antiochee “non emerge alcuna familiarità con i trattati”, mentre invece Cratippo ebbe conoscenza del Περὶ φιλοσοφίας e forse anche dei trattati, pur essendo “assai meno documentabile.”Chiaradonna (2011) 87–8.Ma si è visto nel corso di questa indagine come alcuni tratti ai §§19–21 evochino affinità non solo con il Περὶ φιλοσοφίας, ma, a quanto sembra, anche con le concezioni di Metafisica Λ. Sotto questo profilo, e anche per l’elevata familiarità con Cicerone, l’aristotelismo platonizzante di Cratippo risulterebbe in un qualche modo favorito.Cfr. Barnes (1989) 61: “Cicero was no Antiochian.”Nessuna ipotesi può essere accolta senza riserve. Tuttavia, l’impasse non è insormontabile. Poiché Cratippo ne fu allievo, è plausibile risalire comunque ad Antioco, ed eventualmente ipotizzare che su questi temi cosmologici l’aristotelismo cratippeo possa essere stato debitore del maestro. Del resto, se Cratippo attuò un cambio di affiliazione, da accademico divenendo peripatetico, è da presumersi che un qualche interesse per la dottrina di Aristotele sia sorto già presso Antioco.Quale che sia stato il fattore decisivo per la ‘conversione’ filosofica, su cui si veda Dorandi and Verde (2019) 140–2; cfr. Chiaradonna (2011) 86–7, Dillon (2016) 199–200, e Verde (2018) 153.In ogni caso, muovendosi qui a livello congetturale, lo scoglio da affrontare non è lieve, poiché impone almeno di rivalutare la triangolazione Cicerone-Cratippo-Antioco e, in conseguenza, assegnare al cosiddetto aristotelismo ‘non tecnico’ – ammesso di considerare ‘tecnico’ solo quello dei commentatori –, un peso storico maggiore di quanto solitamente convenuto. Gli studi recenti tendono sempre più a evidenziare la presenza, più o meno in filigrana, di alcune dottrine cardine della Metafisica aristotelica in autori attivi nel sec. I a.C.: è stato dimostrato, sulla base di Alessandro di Afrodisia (In Metaph. 58.25–59.8) e di Simplicio (Ιn Phys. 181.7–30), che un platonico pitagorizzante come Eudoro conobbe piuttosto bene la Metafisica, o almeno alcune sezioni (libri α e Λ);Per un orientamento bibliografico sulla questione cfr. Chiaradonna (2020) 148 n. 2.parimenti, si è dimostrata la conoscenza da parte del peripatetico Boeto di Sidone della dottrina del primo motore immobile, e si è sostenuto che la energeia sia da lui intesa anzitutto come attività (motrice) che non come attualità.Rashed (2020) 221–2 e 252.Se ciò conferma la trasmissione di alcune dottrine, proprio perché risulta favorita la circolazione autonoma di alcuni testi, in età tardo-ellenistica la lettura dei trattati non è da escludere nemmeno per autori ‘non tecnici’, a patto di precisare che “si trattava di una lettura effettuata con modi e finalità diverse rispetto a quelle dei primi commentatori.”Chiaradonna (2011) 89.È chiaro che quanto detto apre a un ulteriore spinoso interrogativo, quello delle eventuali conseguenze drammaturgiche ossia, grosso modo, il presunto impianto dell’opera. Stante la presenza nel prologo di tre ‘attori’ (Cicerone, Nigidio e Cratippo), si è supposto che il Timaeus fosse stato pensato per avere una struttura dialogica.Primo scenario ipotizzato da Hoenig (2018) 48: “it is reasonable to assume that Cicero envisaged the finished product of his treatment of Plato’s dialogue as taking the form of a philosophical disputatio”; cfr. Renaud (2018) 87. Si ricordi che in Tusc. II 9 Cicerone associa Accademici e Peripatetici nella consuetudo de omnibus rebus in contrarias partis disserendi, e assegna il primato ad Aristotele; per approfondimenti cfr. Schofield (2013).A mio avviso, poiché il testo pervenuto ha una forma monologica,Quale “alternative scenario” Hoenig (2018) 49 riconosce che “the translation maintains the monologue form of Timaeus’ original speaking part.”ma ancor più data la sua natura di semplice abbozzo, postulare una qualche distinzione di ruoli è questione assai ardua da precisare, a cagione dell’elevata arbitrarietà implicata.Fra le proposte per un “presumed speaker”, pro Nigidio (linea pitagorica) cfr. Sedley (2013) 204; pro Cicerone (linea “radical sceptical”) cfr. Hoenig (2018) 48–9.Ciò non toglie che le argomentazioni presentate possano aiutare a rivalutare la figura di Cratippo nel Timaeus, che David Sedley ha relegato a una funzione meramente simbolica, vuoi per prestigio vuoi per ruolo di spalla. Stando all’interpretazione da lui suggerita, è “hardly plausible” che Cicerone possa aver attribuito a Cratippo “the role of translating a Greek text into Latin”; pertanto, “the role of delivering a Latinised Aristotelian passage was to be assigned either to a minor Roman speaker, or possibly to Cicero himself”, mentre il compito di Cratippo sarebbe quello “both to give the enterprise his blessing and to provide a suitably august counterweight to Nigidius.”Sedley (2013) 194–5. Invero, già Hermann (1842) 11: “Quanquam de Cratippo rem in ambiguo relinquo, cui si quis alium quemcumque Romanum substituere voluerit […].”Assegnare a Cratippo una funzione accessoria per le ragioni addotte significa quantomeno pesare sulla creatività letteraria e il ruolo di regia di Cicerone, riducendolo a cronista di un evento (datato al 51 a.C.).In conclusione, si è detto che “l’enquête sur l’aristotélisme romain implique […] de déterminer dans quelle mesure les diverses générations culturelles ont perçu la spécificité de l’École au sein de la familia Platonica.”André (2013) 4.Ebbene, tentando di dare un filo conduttore di carattere eminentemente interpretativo a particolarità testuali del Timaeus ciceroniano ritenute per lo più ingiustificate o di difficile spiegazione, sullo sfondo di questa mia ricerca si sono delineati alcuni tratti che potrebbero favorire la partecipazione di Cicerone alle dinamiche esegetiche medioplatoniche; fatto di non poco conto per un autore sovente apprezzato per la sua opera di dossografo e criticato per la scarsa dimensione teoretica.Se gli argomenti proposti hanno validità, la presenza ai §§19–21 di elementi riconducibili alla tradizione aristotelica e il loro sinergico impiego in combinazione con la dottrina platonica potrebbe anzitutto rafforzare il peso di un atteggiamento ermeneutico che ruotò attorno all’insegnamento di Antioco di Ascalona (Antioco, Cratippo, Cicerone), o di questo fu in qualche modo debitore. Sotto questo profilo, l’immagine nel complesso restituita sembrerebbe quella di un platonismo ‘dialogante’ anche nella sua svolta dogmatica, un platonismo che, tutto sommato, cercò di stare al passo con i tempi più di quanto non si sia propensi a ritenere. Al contempo, pur non essendo assimilabile al gusto e alla prassi esegetici della seconda metà del sec. I a.C., la vis filosofica di Cicerone nel Timaeus con le sue probabili aperture anche all’aristotelismo potrebbe in qualche misura fare di lui una sorta di ‘precursore’ in lingua latina di una linea interpretativa tipica della stagione successiva del platonismo. In ogni caso, rivelando una sensibilità filosofica compatibile con l’epoca, risulta senza dubbio valorizzato il carattere per nulla pedissequo di Cicerone nel confrontarsi con la tradizione di un testo chiave quale il Timeo di Platone.
Elenchos – de Gruyter
Published: Dec 1, 2022
Keywords: Cicero’s Timaeus; Cratippus; Antiochus; Platonism; Aristotelianism
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